lunedì 28 marzo 2011

Pinocchio rompe gli schemi, ma trova l'affetto degli amici - di Mariaserena Peterlin

Si va ad incominciare e lo spettacolo deve continuare.

X
I burattini riconoscono il loro fratello Pinocchio e gli fanno una grandissima festa; ma sul più bello, esce fuori il burattinaio Mangiafoco, e Pinocchio corre il pericolo di fare una brutta fine.

Capitolo fondamentale il decimo. La narrazione appare quanto mai varia, ricca di azione e colpi di scena (del resto siamo a teatro), ci sono scambi tra la vita reale e la rappresentazione teatrale (i burattini interrompono la loro recita per accogliere, entusiasticamente, Pinocchio) e suggerimenti nascosti tra le righe; ne andiamo a scoprire qualcuno.

a)    Arlecchino “smette di recitare” quando vede Pinocchio. Eppure ad Arlecchino, in quanto burattino, non dovrebbe essere riconosciuta altra vita possibile che quella della recita.
b)     Il pubblico non vuole che la recita sia interrotta e protesta. “– Vogliamo la commedia, vogliamo la commedia!”… e ti pareva. Quante volte non si preferisce la recita alla vita?
c)    Collodi sottolinea come la fratellanza tra Pinocchio e gli altri burattini sia un legame vero, naturale e profondo: infatti loro non sono umani, sono vegetali.
“È impossibile figurarsi gli abbracciamenti, gli strizzoni di collo, i pizzicotti dell’amicizia e le zuccate della vera e sincera fratellanza, che Pinocchio ricevé in mezzo a tanto arruffio dagli attori e dalle attrici di quella compagnia drammatico-vegetale. Questo spettacolo era commovente, non c’è che dire.”

Appunto, non c’è che dire: gli spettatori, in quanto umani, si spazientiscono e vogliono che la commedia continui (show must go on), mentre i “vegetali” non possono rinunciare ad abbracciarsi.

In passato capitava che qualche insegnante appioppasse ai suoi ragazzi l’epiteto: “sei una testa di legno!”. Chissà se accade ancora? Si definiva una testa di legno quella di una ragazza o un ragazzo che non capisce ed ha dunque una testa tosta, ostinata, che non apprende. Ma sarà vero?
Pinocchio non rinnega la sua natura vegetal-legnosa eppure comprende benissimo, e apprende dai fatti dell'esperienza. La sua logica è anticonvenzionale, ma non ottusa.
Fino a quel momento della sua vita aveva avuto solo l’affetto paterno di Geppetto, nessun umano è stato buono con lui.
Adesso, invece, ha finalmente incontrato i suoi compagni, anzi i suoi fratelli.
E l’ha trovati grazie alla comune natura vegetale.
Teste di legno come lui (per chi vede solo le apparenze) che hanno in realtà cuori affettuosi e sanno rompere lo schema delle convenzioni e dei ruoli che il mondo ci assegna forzatamente.
Infatti Pinocchio scavalca la platea, i posti distinti e piomba sulla scena e dal canto loro i suoi fratelli vegetali smettono di recitare per esultare accogliendolo come un uguale.
Solo un Mangiafoco burattinaio insensibile (per ora) e un pubblico (che ha pagato…) possono rimanere insensibili al trionfo dell’amore e dell’amicizia.
Lo show deve continuare, e gli affari sono affari.
Ma una testa di legno che ne sa degli affari?



mercoledì 23 marzo 2011

Per voi, rossi coralli della vita - di Mariaserena Peterlin

Vasilij Vasil'evič Kandinskij : Il cavaliere azzurro



Per voi che sulle spalle adolescenti
portate i libri, nello zaino appeso.
Per voi che dalla testa ora scuotete
ombre notturne e le opache visioni
dei sogni non riuscite a ricordare.
Per voi che uscite incontro alla giornata
con nella mente gemme di pensieri
fioriti, come i rami dei ciliegi
come rossi coralli aggrovigliati.

Per voi, che sorridete a ciò che è buono
ed istinti malvagi non avete.
Per voi che nella musica trovate
le note delle libere canzoni.
Per voi, sorride il sole e il vento soffia
per voi, solo per voi respira il cielo
che gli uccelli d’acciaio non oscura.
E solo grazie a voi cambierà il mondo.
Il male tace a chi ascolta la vita.

sabato 19 marzo 2011

VOGLIA DI ESSERE ASCOLTATI


Un post nato dalle riflessioni dei ragazzi sul come si cresce e sulle difficoltà del crescere.

A volte pensi che nessuno riesca a capirti, nemmeno gli adulti. Pensi al fatto che i loro consigli appaiono sempre sciatti o superficiali e le loro risposte vaghe.
Dicono che hanno vissuto tutto quello che stiamo vivendo noi e che, quindi, possono comprendere meglio di chiunque altro.
Ma non è così e non lo sarà mai perché sono cambiati i tempi, le persone e anche il modo di pensare.
Così ci si rinchiude in una bolla in cui si fanno entrare solo gli amici, i nostri coetanei, le persone della nostra età che stimiamo di più. Pensiamo che ognuno di loro possa comprenderci, accettarci per quello che siamo senza commentare, giudicare o dare consigli non richiesti.
Perché quello che vogliamo davvero è essere ascoltati. Vogliamo che le nostre idee non siano inferiori a quelle degli adulti. Vogliamo che non ci sia differenza tra noi e loro perché ci sentiamo già grandi.
Quando si tratta di affrontare questioni importanti, gli adulti si nascondono dietro al fatto che non vogliono caricarci di pesanti responsabilità.
Ma noi le vogliamo queste responsabilità. Non metterci al corrente e non farci partecipare dimostra solo una mancanza di fiducia nei nostri confronti. Una fiducia che noi richiediamo a gran voce non solo per autogestirci ma anche per decidere da soli, fare le nostre scelte ed anche sbagliare, perché no?
Gli adulti farebbero qualunque cosa per non farci commettere errori, ma un impatto diretto, uno sbaglio, probabilmente potranno farci imparare molto di più…
Sbattere la testa contro la realtà, bruscamente, spesso è molto più utile di qualunque altra cosa, aiuta a reagire…
Gli adulti si accorgono dei nostri silenzi improvvisi o di una lacrima che riga il viso. Ma anche quando ci chiedono il perché noi rispondiamo con la solita bugliarda parola: NIENTE!
A volte perché non abbiamo voglia di parlare, a volte perché non ne abbiamo il coraggio, o semplicemente perché temiamo che ogni nostra parola gli scivoli addosso come acqua.

martedì 15 marzo 2011

Per voi, che dallo schermo vedete.

No, voi non scrutate i loro visi
né fissate con occhi sorpresi
per cercare le tracce
di un dolore esibito.
L’ipocrita sorpresa
non vi coglie a fissare
le mandorle asciutte
o il respiro mascherato
e costretto
da bende polverose.
No, non è un film,
non è un game o un reality
trastullo di menti annoiate.
Uno è il dolore del  mondo
a che il mondo sia uno.
ho messo il mio cuore
vicino al vostro cuore”:
esile speranza di sollievo
unica possibile, adesso.

sabato 12 marzo 2011

IL MONDO DI CARTA



Per l’adolescente Mattia il mondo è quello delle foto e dei disegni, un mondo virtuale in cui si rifugia per isolarsi dai suoi coetanei e dalla monotonia della realtà. Anche per lui però arriva il momento di operare una scelta: continuare a costruire sogni di carta o vivere realmente?

Vedeva il mondo attraverso una fotocamera. Quel mondo che tanto gli stava stretto, quel mondo nel quale non si riconosceva, quel mondo che non capiva, quella realtà che l’opprimeva e lo soffocava, dalla quale cercava di sfuggire. Mattia guardava la vita passargli sotto gli occhi e sapeva che l’unico modo per scappare era sentire quel click dello scatto. Catturava immagini, momenti. Cercava di trovarci qualcosa di giusto in quel mondo e spesso si chiedeva se in quelle foto avesse davvero immortalato la vita che voleva lui.
Mattia non scartava nulla. Particolari apparentemente insignificanti, guardati senza interesse dagli altri, per lui erano essenziali. Le foglie nel vialetto, la panchina umida del parco, gli alberi spogli. Così metteva insieme i tasselli della sua vita, componendo il suo mosaico di perfezione.

In qualche modo si sentiva un po’ speciale perché sapeva di essere diverso.

Il sabato sera Mattia non voleva andare al cinema. Lui avrebbe preferito stare sulla spiaggia, con la sua fotocamera, a ritrarre il mare, gli scogli, la sabbia, magari passando come un folle ma sentendosi comunque vivo.
Mattia non aveva amici con cui parlare dei suoi progetti. A volte prendeva in mano il telefono nella speranza di chiedere ai suoi compagni di assecondarlo nella sua lucida follia. Poi premeva il rosso e riponeva la cornetta. Mattia era solo. Lui e il suo mondo, lui e il suo puzzle, lui e la sua trasgressione.

A scuola prendeva un foglio e una matita. Quando quest’ultima veniva a contatto con la carta, si sentiva felice. Ritraeva i suoi compagni o immaginava storie. In quegli attimi aveva il potere di decidere per qualcun altro.
Mattia ci credeva e non lo faceva per gli altri ma per se stesso. Al suonare della campanella veniva scaraventato nella realtà, e quasi vergognandosi, prendeva quel disegno e lo strappava. Tornando a casa osservava il cielo e pensava a quanto sarebbe stato bello avere in quell’istante la sua fotocamera per aggiungere altri pezzi alla sua storia.
Mattia sognava, immaginava la fotografia che avrebbe scattato, tamburellando con le dita sulle labbra o mangiucchiandosi il tappo della penna.

Poi Mattia crebbe. Diventò grande e capì che quel mondo in cui viveva diventava ogni giorno più stretto.
In una mattina come tante, si sedette in quel parco, su quella panchina che aveva fotografato anni prima e fra la pioggia e il vento che gli scompigliavano i capelli, cominciò a pensare.
Il posto era lo stesso ma forse qualcosa in lui era diverso.
Quel giorno aveva con sé la foto di quella panchina. La prese dalla tasca della felpa e cominciò a guardarla. Era tutto esattamente identico, gli anni avevano cambiato lui ma non quel luogo.
Era proprio come voleva lui: il contrasto fra quel verde sbiadito e il grigio dell’asfalto del vialetto, la pioggia che sfocava la visuale e le nuvole che chiudevano il cielo su di lui.

Lo ricordava, lo ricordava bene.

Mentre guardava quella fotografia le gocce cadevano giù dalle foglie degli alberi sulla sua testa e sbiadivano l’inchiostro sulla carta. Il colore colava lento sulle sue mani. Fu allora che il verde si mescolò al grigio ma Mattia non si mosse.
Era la sua fotografia preferita, quella che rappresentava il suo disfacimento, quella che racchiudeva tutto il suo mondo. Eppure, anche quando il grigio e il verde si confusero, Mattia rimase impassibile. La osservò, la osservò per l’ultima volta. Poi la lasciò cadere.
Si alzò e sotto la pioggia tornò sui suoi passi abbandonando in quel posto il fulcro della sua esistenza.
Mattia alzò la testa. Su di lui strane nuvole. I fiochi raggi del sole che le attraversavano, le coloravano di rosa, tanto da renderle striate.
Quel forte contrasto gli sembrò piacevole. Piacevole da vedere. Erano diversi quei due colori, eppure si amalgamavano perfettamente. Mattia capì che non sarebbe stato più così difficile per lui e che avrebbe potuto imparare dalle nuvole. Lui era quella striatura rosa. E le nuvole grigie, il mondo.

GIELLE

giovedì 10 marzo 2011

PINOCCHIO, la LEGGE DEL MERCATO (e il CONSENSO INDOTTO) di Mariaserena Peterlin ©

Quanta folla! Che attrazione! IL GRAN TEATRO DEI BURATTINI... VADO ANCH'IO!!
Cap. IX (parte seconda) Pinocchio alle prese con le leggi del mercato

Pinocchio era uscito dunque di casa per andare a scuola, ma poi decide di seguire l’affascinante “musica di pifferi e di colpi di grancassa: pì-pì-pì, pì-pì-pì zum, zum, zum, zum” ed inizia così, di corsa come al solito le sue avventure.

… si trovò in mezzo a una piazza tutta piena di gente, la quale si affollava intorno a un gran baraccone di legno e di tela dipinta di mille colori.

Pinocchio non sa ancora leggere e deve farsi spiegare cosa c’è scritto sul cartello che sovrasta il baraccone; incassa l’epiteto “bravo bue!” appioppatogli da un ragazzo a cui, confessando la sua ignoranza, chiede cosa ci sia scritto.

Sappi dunque che in quel cartello a lettere rosse come il fuoco c’è scritto: GRAN TEATRO DEI BURATTINI.
 – È molto che è incominciata la commedia?
– Comincia ora.
– E quanto si spende per entrare?
– Quattro soldi.

Pinocchio sa già, avendo visto la fine della giacchetta di Geppetto, che nulla si ottiene gratis, ma non ha ancora dovuto affrontare da solo il problema del denaro e di come procurarselo.
Ora però ha la smania addosso. Vuole assolutamente andare a quello spettacolo e i quattro soldi gli servono. Fa dunque un tentativo, abbastanza goffo e spudorato,  che Collodi non manca di sottolineare.

Pinocchio, che aveva addosso la febbre della curiosità, perse ogni ritegno, e disse senza vergognarsi al ragazzetto,col quale parlava:
– Mi daresti quattro soldi fino a domani?
– Te li darei volentieri, – gli rispose l’altro canzonandolo, – ma oggi per l’appunto non te li posso dare.

Proprio così, nessuno (tranne un genitore) regala gratuitamente: c’è la legge del mercato: vuoi una cosa? La paghi al prezzo che ti si chiede. Non hai soldi? O rinunci o te li procuri. E’ la legge della domanda e dell’offerta che regola anche i piccoli affari.
Pinocchio casca nel meccanismo ed inizia una serrata contrattazione.

Per quattro soldi, ti vendo la mia giacchetta, – gli disse allora il burattino.
– Che vuoi che mi faccia di una giacchetta di carta fiorita? Se ci piove su, non c’è più verso di cavartela da dosso.
– Vuoi comprare le mie scarpe?
– Sono buone per accendere il fuoco.
– Quanto mi dai del berretto?
– Bell’acquisto davvero! Un berretto di midolla di
pane! C’è il caso che i topi me lo vengano a mangiare in
capo!”

I vestiti di Pinocchio erano stati allestiti alla meglio dalla buona volontà amorosa di Geppetto, ma quanto vale l’amore sul mercato? Nulla. E così è.
Infatti il burattino scenderà al compromesso. Esita, dubita, si trattiene, ma alla fine cede. Quando la dignità cede al mercato si imbocca una strada in discesa: diventa difficile fermarsi o risalire.
Pinocchio soffre per questa scelta, ma non riesce a rinunciare al “GRAN TEATRO DEI BURATTINI” che gli sembra il più bel divertimento al mondo.
Per quella attrattiva irresistibile vale la pena di gettare alle ortiche cuore e ragione e seguire l’istinto di una curiosità che avrebbe potuto dirigersi altrove, ma che lui non ha ancora imparato a controllare.
Pinocchio soffre un po’, ma cede.

Pinocchio era sulle spine. Stava lì lì per fare un’ultima offerta: ma non aveva coraggio; esitava, tentennava, pativa. Alla fine disse:
– Vuoi darmi quattro soldi di quest’Abbecedario nuovo?
– Io sono un ragazzo, e non compro nulla dai ragazzi,
– gli rispose il suo piccolo interlocutore, che aveva molto più giudizio di lui.
– Per quattro soldi l’Abbecedario lo prendo io, – gridò un rivenditore di panni usati, che s’era trovato presente alla conversazione.
E il libro fu venduto lì sui due piedi.

Il capitolo che si chiude malinconicamente. L’allegria per questa volta soccombe alla riflessione amara:

E pensare che quel pover’uomo di Geppetto era rimasto a casa, a tremare dal freddo in maniche di camicia, per comprare l’Abbecedario al figliuolo!

Ma riflettiamo: gli effetti della mancanza di denaro colpiscono prima Geppetto e poi il suo figliolo, dobbiamo proprio giudicare Pinocchio? E’ giusto attribuire alla sua scelta un significato negativo?
Il messaggio di Collodi sembra dica questo; ma l’autore non ha mancato di sottolineare altri elementi:
a) Pinocchio è divorato dalla curiosità (che non è necessariamente un difetto)
b) Pinocchio si imbatte in una lusinga che lo sa attrarre fortemente: la musica, i colori, l’entusiasmo della piazza (una piazza tutta piena di gente, la quale si affollava intorno a un gran baraccone di legno e di tela dipinta di mille colori)
c) Una piazza non è una persona, ma fa tendenza, diremmo oggi. Trasmette il messaggio di un’umanità che si vuol divertire con uno spettacolo da mille colori.
d) Pinocchio, che indubbiamente non fa la scelta migliore, è in minoranza. Perché dovrebbe solo lui rinunciare?
e) E’ davvero libero, ha gli strumenti e l’esperienza per decidere, in quel  momento, al meglio?


©

I testi a commento delle Avventure di Pinocchio, di Carlo Collodi, contenuti in questi post sono di proprietà degli autori del Blog;  proprietà letteraria e artistica riservata
Tutti i diritti riservati -  All rights reserved






lunedì 7 marzo 2011

Tutti possiamo narrare, ma occorre riprendersi la parola - di Mariaserena Peterlin

RIPRENDERSI LA PAROLA

Bottiglia senza messaggio
Non desidero il rumore.
Desidero
esattamente l'opposto:
una voce che chiama un'altra voce
che risponde
come una luce
che pulsa solare
come un messaggio detto
come una parola
pensata da soli
come una suggestione
senza fine.

Questo, solo per cominciare.
Perchè immagino un Dio creatore
come uno che ha fatto
e non ha avuto bisogno di permessi
e non ha chiesto se dovesse
correggere
mediare
sottintendere o alludere
far riscrivere
e strisciare
e perdere sé.

L'uomo deve
riprendersi
la parola.

Questo immagino
e spero sia.
Prima possibile.

venerdì 4 marzo 2011

Pinocchio come noi, tra scuola e vita ©

Pinocchio, comincia davvero  a vivere le sue avventure con il capitolo IX intitolato:  
PINOCCHIO VENDE L’ABBECEDARIO PER ANDARE A VEDERE IL TEATRINO DEI BURATTINI.

Il dilemma di Pinocchio


Fino a questo punto la vita di Pinocchio si era svolta nell’ambito famigliare: era un pezzo di legno che Geppetto aveva scolpito, era  diventato burattino, aveva iniziato con le sue monellerie, se l’era presa col Grillo Parlante e aveva tentato una prima fuga da cui poi era ritornato; insomma era ancora legato alle sue origini con una sorta di originale cordone ombelicale.
Ora però ha promesso che andrà a scuola e, consapevole del sacrificio, davvero grande, fatto da Geppetto per lui, ci va di buona voglia e pieno di aspettative:

Smesso che fu di nevicare, Pinocchio col suo bravo Abbecedario nuovo sotto il braccio, prese la strada che menava alla scuola: e strada facendo, fantasticava nel suo cervellino mille ragionamenti e mille castelli in aria, uno più bello dell’altro.

L’espressione usata da Collodi “fantasticava nel suo cervellino mille ragionamenti e mille castelli in aria” merita una riflessione. Castelli in aria è un modo di dire oggi piuttosto frequente ma di origine antica, infatti risulta che l’abbia scritto per primo Bernardo Bellincioni, poeta fiorentino che visse anche alla corte di Lorenzo dei Medici.  Probabilmente questo modo di dire era già presente nella lingua parlata ed è ancora una locuzione talmente viva e densa di significato che non potremmo facilmente sostituirla con un’altra equivalente.
Pinocchio costruisce, dunque i suoi castelli sospesi in aria immaginando che la scuola gli aprirà tante opportunità ricche di rapidi risultati. Il suo è un volo pindarico proiettato nel futuro.

E discorrendo da sé solo diceva:
– Oggi, alla scuola, voglio subito imparare a leggere: domani poi imparerò a scrivere e domani l’altro imparerò a fare i numeri. Poi, colla mia abilità, guadagnerò molti quattrini e coi primi quattrini che mi verranno in tasca, voglio subito fare al mio babbo una bella casacca di panno. Ma che dico di panno? Gliela voglio fare tutta d’argento e d’oro, e coi bottoni di brillanti. E quel pover’uomo se la merita davvero: perché, insomma, per comprarmi i libri e per farmi istruire, è rimasto in maniche di camicia... a questi freddi! Non ci sono che i babbi che sieno capaci di certi sacrifizi!


Quante speranze, costruite su aeree fondamenta, il nostro Pinocchio ripone nel frutto del suo impegno scolastico!
In realtà non ha ancora messo piede a scuola, ma nel suo cuore abitano i sogni, e i sogni per un ragazzo non sono utopie, bensì proiezioni di se stesso,  sono aspettative realmente accarezzate e coltivate, sono lo “stato soave” che caratterizza la “stagione lieta” di cui parlano i poeti e che solo i grandissimi uomini non dimenticano una volta diventati adulti.
Questi sogni non sono privi di ansia e sbigottimento, ma non per questo sono meno amati.
Pinocchio infatti si “fomenta”, diremmo oggi con un linguaggio più semplice e spontaneo, ed emoziona. E’ sinceramente convinto: andare a scuola è una piccola rinuncia alla sua libertà. però gli permetterà di realizzare tanti sogni. Ma ecco l'imprevisto.

Mentre tutto commosso diceva così gli parve di sentire in lontananza una musica di pifferi e di colpi di grancassa: pì-pì-pì, pì-pì-pì zum, zum, zum, zum.
Si fermò e stette in ascolto.

Il suono è allettante e sconosciuto, solletica la sua curiosità e per al burattino si presenta il dilemma: che fare?
Frequentare la scuola sarebbe un atto virtuoso in previsione del domani, ma quella divertente musica è lì: presente e viva.
pì pì pì -zum zum zum
Quel suono è la vita che chiama.  Come resistere? 

Si fermò e stette in ascolto. Quei suoni venivano di fondo a una lunghissima strada traversa, che conduceva a un piccolo paesetto fabbricato sulla spiaggia del mare.
– Che cosa sia questa musica? Peccato che io debba andare a scuola, se no...
E rimase lì perplesso. A ogni modo, bisognava prendere una risoluzione: o a scuola, o a sentire i pifferi.
– Oggi anderò a sentire i pifferi, e domani a scuola: per andare a scuola c’è sempre tempo, – disse finalmente quel monello facendo una spallucciata.
Detto fatto, infilò giù per la strada traversa, e cominciò a correre a gambe.

Ecco perché, proprio da qui iniziano, per l’appunto, le sue avventure.

Naturalmente correndo.